La vita è solo un’altra morte La morte non è la fine, ma l’inizio della vita.

Friedrich Hebbel
Raffigurazione egizia del ba

Per gli antichi Egizi, ogni persona era costituita da cinque componenti essenziali: il ka, il ba, l’ombra, l’akh e il nome. Il ba era la componente più simile alla nostra concezione di anima e di solito veniva raffigurata come un uccello dal volto umano.

Pesatura del cuore — Dal libro dei morti (o “libro per uscire al giorno”: insieme di formule magiche per raggiungere l’aldilà)

Una prova fondamentale, affinché il defunto raggiungesse l’aldilà e potesse riprendere il proprio corpo fisico, era quella della pesatura del cuore (o dell’anima). Anubi, dio egizio dalla testa di sciacallo, era colui che accompagnava il defunto al cospetto di Osiride, verso la bilancia dove su un piatto veniva posto il cuore del defunto e su quello opposto la piuma della dea Maat. Il cuore doveva essere leggero come la piuma altrimenti, se appesantito dai troppi peccati, sarebbe stato divorato dal mostro Ammut.

San Michele è una figura comune per tutte e tre le religioni monoteiste. Il suo culto è giunto a noi dall’Asia Minore e si è diffuso in tutta Italia partendo dalla Puglia: dove ha luogo il santuario di Monte Sant’Angelo.

In molte tradizioni popolari italiane, San Michele riveste analoga funzione del dio egizio Anubi.

Affresco di San Michele a Bominaco (psicostasia)

All’Arcangelo, infatti, è affidata la pesatura dell’anima e il compito di accompagnare lo spirito dei morti nell’aldilà.

In Abruzzo si credeva che tutti i defunti avrebbero dovuto intraprendere un viaggio, prima di raggiungere l’aldilà, verso un luogo simbolico, che varia da credenza a credenza: ricorrono spesso San Giacomo di Galizia, il fiume Giordano, la valle di Giosafat (valle ad est di Gerusalemme dove, secondo l’Antico Testamento, si terrà il Giudizio Universale). A tal scopo, in molte zone, era d’uso mettere una moneta nella tasca del defunto per pagare il viaggio. Questi luoghi simbolici ci richiamano alla mente due tra le principali mete di pellegrinaggio in epoca medievale: Santiago de Compostela e la Terra Santa. Pellegrinaggio che ogni buon cristiano avrebbe dovuto compiere almeno una volta nell’arco della sua vita come atto di devozione, penitenza o espiazione. A conferma di quanto esposto, era molto comune in Abruzzo il detto:

A San Giacomo di Galizia, chi non ci va vivo, ci va morto.

Questa credenza potrebbe esser stata incrementata dalla particolare indulgenza concessa nel 1120 da papa Callisto II che garantiva il Paradiso anche per quei cristiani che fossero morti durante il pellegrinaggio a Santiago.

Spesso, nelle credenze popolari abruzzesi ed italiane, viene citato un ponte da attraversare per raggiungere l’aldilà. Il ponte di San Giacomo è ricorrente, così come la presenza dell’Arcangelo Michele che dà ausilio affinché le anime attraversino il periglioso ponte.

A Pescocostanzo, si credeva che il defunto dovesse passare il fiume Giordano. In questa credenza, anziché l’Arcangelo, è d’aiuto al defunto l’anima di un bambino che, tenendolo per mano, lo conduce al di là del fiume. Una credenza più o meno simile, si riscontra in altre zone d’Abruzzo, dove il bambino morto prematuramente viene inteso come un angelo pronto ad accogliere alle porte dell’aldilà i genitori o il compare.

Il legame tra l’aldilà, bambini e angeli è ancor più evidente in un’altra credenza. A Roccaraso si riteneva che i defunti potessero essere “evocati” da innocenti fanciulli. In un suo scritto di fine ‘800, lo studioso Gennaro Finamore riporta la testimonianza delle capacità medianiche di una ragazza e un ragazzo che “… in alcune ore del giorno cadevano in assopimento tale da parere come morti. Si credeva fermamente che, durante quello stato, le anime di quei ragazzi viaggiassero, in compagnia di un angelo, pel regno dei morti…”.

L’ausilio degli angeli è centrale anche nella tradizione Vastese. Si credeva che avessero il compito di trasportare in cielo l’anima del defunto. A tal scopo si lasciavano aperte le finestre.

Tenere finestre o portoni aperti, quando viene a mancare una persona, è una tradizione in uso ancora ai nostri giorni, anche se con motivazioni differenti. Un tempo, in molti paesi d’Abruzzo, si credeva che il portone aperto consentisse alle anime degli antenati del defunto di entrare in casa per rendergli visita, per benedirlo e accompagnarlo in chiesa.

Finestre e portoni aperti erano intesi pertanto come un portale tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Un’apertura fisica per comunicare con l’aldilà è un concetto antichissimo. Il buco delle anime è un foro presente nei coperchi sepolcrali delle tombe preistoriche. E c’è chi ipotizza addirittura, come lo storico Hermann Schreiber (Austria, 1920-2014), che l’Uomo di Neanderthal praticasse un’apertura nel cranio dei defunti al fine di consentire all’anima di abbandonare il corpo. Quindi una primigenia forma di concezione della vita oltre la morte e di rituale funebre.

Questa ipotesi potrebbe essere avvalorata dal ritrovamento del cranio di Saccopastore. Rinvenuto nel 1929 nella cava di Sacco Pastore, nella campagna romana, questo cranio sarebbe appartenuto probabilmente ad una giovane donna vissuta 125000 anni fa e presenta un foro sul cranio, praticato intenzionalmente. Anche se alcuni studiosi ritengono che sia stato fatto per scopi cannibalistici, potrebbe invece far pensare proprio al sopracitato buco delle anime, seppur in forma arcaica.

Cranio denominato Saccopastore 1

Finora vi abbiamo parlato delle prove e del viaggio delle anime per raggiungere l’aldilà. Ma non tutte le anime erano destinate a raggiungerlo. Abbiamo visto come nell’antico Egitto, il cuore di un defunto, reso grave dai peccati, finiva per essere divorato dal mostro Ammut, precludendo al suo possessore l’aldilà. Nella nostra concezione cristiana, anche un’anima gravata dai peccati finisce nell’oltretomba, ovviamente non in Paradiso ma al Purgatorio o all’Inferno.

Secondo una credenza popolare abruzzese però, vi sono anime che non possono raggiungere nessun luogo. Esse, non essendo state “chiamate da Dio”, non “trovano luogo” e sono destinate ad errare sulla Terra.

Sono le àneme spèrse: spiriti di coloro che non sono morti di morte naturale e nel giorno stabilito da Dio, ma a causa di una disgrazia, di un omicidio o del castigo divino (ad esempio a causa di un terremoto). Si credeva che lo spirito di un uomo ammazzato, potesse manifestarsi sul luogo dell’omicidio anche sotto forma di “vortice”.

A volte anche le anime dei malvagi potevano permanere sulla Terra. In proposito esistevano credenze che oggi definiremo di stampo horror. Ad Ortona, ad esempio, si raccomandava di star lontani il più possibile da un moribondo malvagio: durante l’esalazione del suo ultimo respiro, la sua anima (l’äfe) sarebbe potuta entrare nel corpo di una delle persone presenti nella stanza.

Vogliamo terminare il nostro articolo parlandovi di una particolare credenza abruzzese che associa il pianto dei familiari al peso dell’anima. Le troppe lacrime avrebbero fatto penare l’anima del defunto e reso molto difficoltoso il suo viaggio. A Chieti si diceva che esse inzuppassero la camicia del morto; a Città Sant’Angelo, che rendessero sdrucciolevole la sua via; a riguardo di seguito riportiamo una piccola storiella che si raccontava a Castel di Sangro: “… un giovane morì ammazzato, ed era portato al camposanto. La madre e la sorella, che dalla finestra vedevano portar via il morto, ricominciarono i pianti e le grida, chiamando il povero estinto. Il feretro si rese così grave, che convenne posarlo a terra. Cessati i pianti, ridivenne leggiero, e fu facile portarlo a seppellire…” (G. Finamore)

— di Concetta Rocci e Giovanni Santostefano


BIBLIOGRAFIA
Biedermann H. – Enciclopedia dei simboli;
– Centini M. – I luoghi misteriosi della Terra;
– Eco U. – L’antichità;
– Finamore G. – Tradizioni Popolari Abruzzesi (1894);
– Schreiber H. – Sulle orme dei primi uomini.