— di Concetta Rocci e Giovanni Santostefano

Il racconto che leggerete è una libera rielaborazione delle storie che si raccontavano un tempo a Castel di Sangro sulla figura del licantropo.

Miniatura medievale: https://historycollection.com/12-crazy-descriptions-from-medieval-bestiaries/8/

Socchiuse gli occhi mentre affondava i denti nel succulento cosciotto di tacchino. Lucia, seduta in un angolo della stanza accanto alla madre, fissava ora l’uomo che mangiava avidamente, ora suo padre che sedeva dall’altra parte del tavolo. Era in attesa della risposta che avrebbe cambiato la sua vita.

Il padre di Lucia aspettò in silenzio che l’uomo finisse di divorare il tacchino poi stappò la bottiglia di vino e passò il bicchiere al suo ospite. Lucia trattenne il respiro e finalmente il padre parlò: “Si può fare”.

Il sanzaro, con un ghigno compiaciuto, afferrò il bicchiere con le mani ancora lorde di grasso e si brindò per suggellare l’accordo raggiunto, facendo l’elenco di tutti i terreni e gli altri beni che le due famiglie offrivano per il matrimonio. Fu così che Lucia e Luigi si sposarono e si trasferirono nella masseria che aveva costruito Luigi, ai piedi del bosco della ‘Dfenza.

I giorni scorrevano sereni per gli sposi. Lucia si sentiva la donna più felice del mondo accanto al suo Luigi. Il matrimonio era stato combinato, è vero, ma lei si era innamorata davvero quando, incontrandosi per la prima volta, lui le aveva sorriso, senza bisogno di scambiarsi alcuna parola.

La masseria, però, era così isolata che l’unica persona che Lucia vedeva tutti i giorni era una vecchia contadina che ogni mattina, prima di raggiungere il suo terreno, sostava a pregare alla chiesetta di Santa Lucia. Fu proprio davanti alla chiesetta che un giorno la contadina si lasciò sfuggire una frase che impensierì la giovane, sul fatto che la masseria non fosse un luogo sicuro date le storie che si raccontavano.

Lucia, che quella mattina doveva recarsi in paese, approfittò dell’occasione per far visita alla madre e confidarle il superstizioso timore che la vecchia le aveva instillato nella mente. Sperava di ricevere conforto, invece la madre tentò puntualmente di cambiare argomento e questo non fece altro che aumentare l’apprensione della giovane, che incalzò la madre fin quando ella non crollò. Confessò di sentirsi in colpa per non averle rivelato prima del matrimonio le storie che si raccontavano sulla zona della ‘Dfenza su cui sorgeva la masseria. E piangendo, le raccontò tutto.

Terminato il racconto, Lucia si avviò per tornare alla masseria e durante tutto il percorso la sua mente non riuscì a staccarsi dalle immagini orrende che la madre aveva evocato: resti di animali sbranati, alberi scortecciati e grossi rami spezzati, versi raggelanti nella notte. Soprattutto Lucia non riusciva a scacciare dalla mente l’immagine di ciò che venne rinvenuto un giorno di qualche anno prima nel bosco: scarponi con dentro ancora i piedi e con le ossa che sporgevano dai moncherini; tutt’intorno una scena raccapricciante. Questo è quello che le aveva raccontato la madre. Lucia si chiuse in casa e si avvolse nel suo scialle verde smeraldo cercando in esso un senso di protezione ma quando suo marito ritornò si lasciò alle spalle ogni ansia e preoccupazione, le bastò che il suo Luigi l’abbracciasse e le sorridesse ancora.

A circa un mese dal matrimonio, Luigi disse a Lucia che avrebbe dovuto recarsi fuori paese per un giorno, per fare delle consegne con il carretto e avrebbe trascorso la notte lontano da casa.

Prima di partire si avvicinò e le chiese una promessa: “Questa notte, non uscirai fuori da questa porta, qualsiasi cosa tu senta. Promettimelo!”

Questo ammonimento fece precipitare di nuovo Lucia in quel senso di timore e di angoscia e ricordò quella sera in cui Luigi serrò porte e finestre, dopo che il sanzaro aveva fatto loro una visita di cortesia.

Lucia passò così la giornata in noiosa solitudine, giacché neppure la vecchia contadina si era fatta vedere. Per ingannare il tempo si era messa quindi a pulire il pollaio e la casa.

Calò la notte. La splendente luna piena faceva rilucere d’argento i campi tutt’intorno la ‘Dfenza. Lucia sedeva tranquilla accanto al camino e osservava il pacifico paesaggio che si stendeva oltre la finestra, fino a che non si assopì.

Si svegliò improvvisamente a causa del frastuono che giungeva dall’aia. Dopo il rumore di legno fracassato Lucia sentì lo schiamazzare delle galline terrorizzate.

Pensò che fosse crollato il pollaio, indossò lo scialle verde smeraldo e fece per precipitarsi fuori di casa ma si arrestò sulla soglia pensando alla promessa fatta. Gli schiamazzi incessanti delle galline la spinsero ad uscire.

Raggiunse il pollaio e scoprì che la struttura era intatta tranne la porta ridotta in frantumi.

Alla luce della luna intravide la sagoma di un grosso animale, forse un lupo. Restò impietrita dall’orrore, non aveva mai visto in tutta la sua vita una bestia così: la figura ferale e famelica si ergeva eretta sulle zampe posteriori mentre faceva strage di galline.

D’un tratto la bestia si girò e sembrò accorgersi della sua presenza. Lucia non riuscì a trattenere un urlo, afferrò il forcone poggiato sul recinto e lo puntò contro la bestia che in un attimo le fu addosso. Con una zampata il forcone venne scaraventato lontano. Lucia urlò di nuovo e la bestia emise un latrato selvaggio. Lucia trovò la forza di correre a perdifiato verso la porta di casa. Mentre correva avvertiva la presenza farsi sempre più vicina. Un forte strattone la fece barcollare, le fu strappato lo scialle e con la coda dell’occhio vide la bestia stringerlo tra le fauci.

Saliti i tre gradini che portavano all’uscio, Lucia entrò e si barricò in casa. Si accucciò in un angolo e sentì la bestia aggirarsi attorno alla masseria per lungo tempo. Solo la luce dell’alba mise fine a quell’incubo.

Lucia continuò a restare immobile, accucciata nell’angolo aspettando con ansia il ritorno del marito. Nella sua mente si affollavano i ricordi della notte appena trascorsa, di quell’essere animalesco che per assurdo sembrava indossare abiti ridotti a brandelli. A Lucia parvero, senza ombra di dubbio, gli stessi abiti che usava portare il sanzaro.

Le ore passarono nel tormento finché non sentì la chiave girare nella toppa e vide Luigi entrare col volto preoccupato per quanto visto nell’aia. Lucia scoppiò a piangere e Luigi la abbracciò sollevato che lei fosse incolume.

Tentò di consolarla e mentre lei lo guardava, asciugandosi le lacrime col dorso della mano, lui le sorrise. Lucia sbiancò all’improvviso, impietrita: tra i denti di Luigi era incastrato un filo di lana… verde smeraldo.


FOLKLORE DEL LUPO MANNARO

Secondo il racconto di Erodoto e Plinio, i membri della tribù dei Neuroi, si trasformavano in lupi una volta l’anno. Alcuni popoli della Turchia e del nord Europa consideravano il lupo come animale totemico, pertanto la testa di lupo compariva su vessilli e stendardi o, come per i berserkir (i guerrieri di Odino), indossata in battaglia.

È con l’avvento del cristianesimo che il lupo prenderà soltanto accezione negativa, alimentando storie sulla stregoneria e sulle maledizioni proprie della licantropia. Lupi mannari si diventava infatti a seguito di una maledizione o per possesso di un oggetto maledetto (pelle di lupo o cintura del lupo mannaro).

La metamorfosi di uomo in lupo come elemento diabolico si diffonde nel periodo dell’Inquisizione e soprattutto durante la Caccia alle Streghe. Sprenger e Kramer, nel Malleus Maleficarum, parlano di come il demonio in realtà non abbia la capacità di trasformare uomini in lupi, piuttosto di ingannarli per far credere loro di essere vittima di una simile metamorfosi. Questo particolare ci fa pensare ai molti affetti da disturbi come l’epilessia che, pur non tramutandosi fisicamente, venivano considerati licantropi.

Secondo il folklore abruzzese coloro che nascevano a mezzanotte di Natale, se maschi, erano lupi mannari (oppure stregoni o altre creature maligne). Anche in questo caso, spesso, la credenza superstiziosa veniva associata a malattie neurologiche. Ne è un emblema la venerazione a San Donato un tempo molto diffusa in Abruzzo. Lo si invocava per guarire dal ‘male di San Donato o male della luna’, male che avrebbe afflitto non solo gli epilettici ma anche i licantropi (persone in realtà sofferenti di una particolare forma d’isteria). Famoso era il Santuario di Celenza sul Trigno a cui affluivano numerosi pellegrini per effettuare il rito della pesatura, un rito di origine medioevale. Per ottenere la grazia si donava al santuario grano equivalente al peso del malato.

Credenza superstiziosa a parte, in alcune cronache del XVIII secolo si narra di un misterioso lupo di gigantesche dimensioni che nelle campagne francesi di Gévaudan uccise più di 100 persone nel corso di 22 anni, sfuggendo a tutti i tentativi di cattura. Un particolare inquietante circonda ancor più questo mistero: la bestia Gévaudan venne descritta e raffigurata in incisioni dell’epoca come un essere che si muoveva in posizione eretta.